01 febbraio 2007

Arte concettuale e filosofia del linguaggio

"Io non ho alcun bisogno di lavorare sui miei oggetti. Uno dei miei assistenti, o chiunque altro, può riprodurre il disegno come potrei farlo io”. Con questa frase Andy Warhol, vuol farci riconoscere che nell'epoca della riproducibilità tecnica, è di marginale importanza l'attribuzione della paternità di un opera. In altri termini, è essenziale il gesto, l'idea dell'artista, piuttosto che l'opera in sé.


Sempre più spesso l'artista concepisce il lavoro nello studio, ma viene realizzato altrove da artigiani professionisti. L’oggetto diviene quindi il prodotto finale di un processo. L'artista perde l' interesse per la fisicità dell’opera.

Questo modo di operare, definito "concettualismo", è stato influenzato per lo più dalla filosofia del linguaggio.
La presa di posizione teorica più celebre sarà quella di Joseph Kosuth che si trova nel saggio "Art after philosophy" del 1969. E' una sorta di riassunto del pensiero di Ludwig Wittgenstein, il grande pensatore austriaco.

L’arte concettuale - scrive Kosuth - ha alla sua base l’idea che gli artisti lavorano con il significato, e non con forme, colori, o materiali. Qualsiasi cosa può essere impiegata dall’artista per realizzare l’opera, incluse forme colori o materiali, ma la presentazione finale dell'opera, dipende essenzialmente dalla sua funzione di veicolo per l’idea, che ne sta alla base".
§
Cosa vuol dire che l’artista lavora con il significato? Kosuth cita la celebre formula di Wittgenstein dove parla di linguaggio: il significato del linguaggio è nell'uso.

La nozione di ‘uso’ è rilevante per l’arte e il suo linguaggio. La differenza fra i vari usi di un oggetto, è direttamente collegata alle differenze nelle intenzioni dell'artista. La considerazione di un oggetto come un’opera d’arte, viene necessariamente prima del vederla.

Se qualcuno mi dice, ad esempio, la parola cubo, io so cosa significa. Ma l’impiego della parola può starmi tutto quanto davanti alla mente, quando la comprendo in quel modo? No certamente. In questo caso chiamiamo "applicazione dell’immagine di un cubo". Credere che l’immagine ci costringa a una determinata applicazione, consiste nel fatto che ci viene in mente solo un caso e nessun altro.

Quando udiamo la parola ‘orinatoio’ e vediamo al museo l’orinatoio di Duchamp, l’immagine mentale è la stessa di un orinatoio comune, ma il significato è diverso.

Con Duchamp l’arte cambia il suo obiettivo, il che significa che la natura dell’arte passa da una questione di forma ad una questione di funzione. Questo cambiamento dall’apparenza al concetto, ha segnato l’inizio dell’arte moderna e dell’arte concettuale.

È l’uso di un oggetto all’interno del gioco linguistico dell’arte che ne fa un oggetto artistico. Dunque l’opera d’arte è un fatto linguistico.

Se continuiamo nell'analogia delle forme artistiche come il linguaggio peculiare dell’arte, allora ci si può render conto che le opere d’arte sono sequenze di proposizioni. Vale a dire, se sono viste entro il loro contesto come arte, esse non danno alcuna informazione di nessun tipo attorno a qualsiasi fatto esterno al loro mondo. E' come dire che nel gioco degli scacchi valgono le regole degli scacchi, ma solo e solamente in quel contesto. Le regole degli scacchi non possono essere applicate al gioco del poker.

Un’opera d’arte è una ripetizione di se stessa, in quanto essa è la presentazione dell’intenzione dell’artista, ovvero egli sta dicendo che una particolare opera d’arte è arte, il che significa che è una definizione dell’arte. Come un uomo è un uomo nella società degli umani. Sono per lo più tautologie.

L’arte è quindi pensare l’arte stessa.

Oggi gli oggetti sono concettualmente irrilevanti. L’arte quindi tende ad avere sempre meno significato emozionale, per proporsi come lucida razionalità ed indagine linguistica, dove per linguaggio si intenda un sistema inferenziale.
Se vogliamo saperne di più, sull'uso dell'arte come linguaggio, dobbiamo quindi prestare un'attenzione particolare alle parole del demiurgo Marcel Duchamp laddove in un intervista, due anni prima di morire, dichiara:

"Mi sono servito, dell’arte, per stabilire un modus vivendi, una specie di metodo per capire la vita. Cercare cioè di fare della mia vita un’opera d’arte, invece di passarla a creare quadri o sculture. Ora, penso che si possa usare il proprio modo di respirare, di agire e di reagire agli altri. Si può trattarli come un quadro, un tableau vivant, o un’immagine cinematografica, se volete. Sono le mie conclusioni di adesso, che non ho né voluto né organizzato quando avevo 15 o 20 anni, ma mi rendo conto ora, dopo molto tempo, che in fondo è a questo che ho mirato"

(Duchamp 1966)

Con questo testamento spirituale, Duchamp ci dice che non solo il sistema dell’arte ma anche la vita deve essere decostruita e ripensata in funzione del suo uso.
Se per conoscere bisogna smontare i pezzi, Duchamp smonta il funzionamento della produzione del valore, della costruzione del senso e che in ultima analisi è il linguaggio stesso a fornire il significato, che per l'appunto sta nel suo uso.
Allora fare di sé un’opera d’arte, ha un senso solo se si distoglie l’attenzione dalla vita come senso e si inizia guardarla come uso del linguaggio.
Così sono le opere di Duchamp, dei segni indicatori di eventi accaduti nel proprio sé.

«Usare il proprio modo di respirare, di agire, di reagire agli altri... e farne un tableau vivant». Lavorare sul linguaggio in definitiva come su un sistema, considerando il proprio corpo come auto-produttore di linguaggio, al punto di affermare che è proprio il linguaggio a consentire di fare una tale considerazione e che al di là di esso non vi è conoscenza.

"Non ci sono problemi perché non ci sono soluzioni"

18 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho letto il post. Non c'ho capito niente e mi gira la testa.

No dai. Bello, in pieno stile Duchamp. Insomma un ottimo modo per entrare nella crew dei sentenziosi ufficialmente.

In ogni caso, non sono totalmente d'accordo. L'arte è si il concetto, l'idea, l'ispirazione, ma ritengo sia anche la creazione. Non è che se mi viene in mente un quadro fantastico e poi non lo realizzo ho creato un'opera d'arte. Così come se a concepire il David fosse stato qualcuno senza la maestria di Michelangelo non sarebbe venuto fuori quello che è ora. Sicuramente l'esasperazione della cultura moderna porta a un'idea di arte molto più astratta, concettuale, ma non ritengo sia sufficiente limitarci a "raccontarla". Dobbiamo vederla, toccarla, analizzarla.

Al contrario sono pienamente d'accordo con il comportamento e le movenze che diventano una forma di arte.

In ogni caso, buona serata!

Anonimo ha detto...

B, capisco la tua posizione.

Duchamp: awesome! Ottimo post, homme. Personalmente ritengo anche fondamentale la ridefinizione del rapporto autore-pubblico, nel senso di una rivalutazione del giudizio individuale. Non so, secondo me l'arte degl ultimi 50 anni verte su questo fatto, pone al centro da un lato l'artista e non l'opera (es. è "un Pollock", è "un Warhol" e non questa o quella tela) e dall'altro il giudizio soggettivo (per me questo Pollock significa...eccc.). Ecco, la rivalutazione del proprio uditorio è molto più marcato rispetto al passato: se l'artista ora lavora (anzi, è già il caso di usare l'imperfetto) con il significato (e/o ci gioca, vedi Duchamp, Duchamp), la codifica dell'eventuale messaggio nell'insieme significante+significato è comunque in mano al pubblico. Da qui problemi di incomprensione o, nei casi estremi, manipolazioni da parte della critica.

Mh. Cazzo ho detto?

Butel 2 ha detto...

Sbaglio o do giorno in giorno Butel1 diventa sempre più frocio e femmineo nonchè mellifluo?

Anonimo ha detto...

Come ti è potuto venive in mente, cavo?

Anonimo ha detto...

Rassicurati, più che frou frou, butel1no mio rischi di diventare frug frug, ovvero un davk un pò poseur (l'uomo finto-vero sensibile e effemminato tira la pheega più delle api col miele, non temere)
Ma tornando al sommo duchamp:
molto interessante il tutto, come gli articoli sulle mostre dei butei; ha un suo bel perchè, ma, ovvia, avrei preferito sentirlo con parole tue e saltuarissime citazioni
Cosi mi scivoli sui copiaincolla
anche se ammetto: l'ho letto d'un fiato
Tuttavia concordo con b
Ottimo ragazzo mio ottimo

Anonimo ha detto...

frugulla, sul copia incolla potremo stare a disquisire ore, anni, giorni, mesi interi...

quando il più quotato artista italiano nel mondo, maurizio cattelan copia alla biennale, pari pari la mostra del vicino che fa?

quando damien hirst il piu quotato artista al mondo, copia pari pari una farmacia e la mette alla modern tatre che fa?

no, basta con ste storie del copia oncolla...vuol dire che non si capisce che E' LA SCELTA DELL'AUTORE CHE IMPORTA !

e tutto il resto è critica noiosa !
(e comunque vulo dire che non hai letto con attenzione il mio testo)

duchamp

Anonimo ha detto...

mi piace la versione duchamp indignato ahr ahr ahr...

no, comunque sia non l'arte non è più l'uomo "faber" fabbricatore di cose, (vedi l'esempio del david fatto da b) ma l'uomo pensiero, poetico metafisico, come lo voleva de chirico.

Anonimo ha detto...

Frugulla: certo che l'ometto "sensibile" ha sempre il suo perchè; del resto anche l'omone macho ha il suo perchè, antropologicamente parlando ci sono diversi studi che dimostrano come "funzioni" anche meglio.

Riguardo a Duchamp vs. Frugulla (vd. anche post precedente): beh io ho già preso posizione ma non lo dirò qui e ora; preferisco vedersi risolvere la bagarre intellettuale(?) in un bagno di sangue.
Quindi farne un post.

Sì sì, svendo il dolore e le esequie altrui, bla bla, Damien Hirst me fa na pippa ;-)

Anonimo ha detto...

MAURIZIO CATTELAN E' IL VERO READY MADE

di Fabio Cavallucci
(direttore rivista: -work- musei civci di trento)

Nel numero scorso di “Work” il massimo studioso di Marcel Duchamp, Arturo Schwarz, in un per altro appassionato e coinvolgente articolo sull’eredità duchampiana nell’arte contemporanea, si scagliava contro alcuni dei presunti prosecutori del maestro francese, tra cui Maurizio Cattelan. “Mi batterò sempre contro la tua opinione, ma farò di tutto perché tu possa esprimerla”, diceva Voltaire; e questo stesso motto è anche il nostro all’interno di questa rivista.
Ribattere a Schwarz non è difficile, perché egli non si è accorto di avere usato contro il lavoro del presunto “prosecutore eretico” gli stessi argomenti che sono sempre stati adoperati contro Duchamp. Il Papa colpito da un meteorite starebbe meglio in un museo delle cere; gli animali impagliati sono più adatti a un museo di storia naturale; i fantocci di bambini appesi sono una provocazione gratuita. Il che è lo stesso che dire: lo Scolabottiglie deve stare in una cantina, la Ruota di bicicletta in un’officina meccanica, un orinatoio esibito è solo un mezzo per scandalizzare i benpensanti.

In sostanza non è arte, ma solo gioco, provocazione, attacco gratuito. Non c’è bisogno di rispondere a queste accuse perché Schwarz l’ha già fatto scrivendo testi importanti che raccontano il senso profondo che si rivela dietro l’apparente leggerezza dei ready made duchampiani. Questa medesima profondità, in modo diverso, la possiamo trovare anche nei lavori di Maurizio Cattelan.

Del resto Cattelan si muove chiaramente sul solco del ready made. Ma se Duchamp usava allora gli oggetti comuni del sistema industriale, i prodotti dell’industria meccanica, che rappresentavano l’immaginario oggettuale più diffuso del mondo occidentale, Cattelan riprende gli elementi più correnti nella società postmoderna: le immagini. Se la nostra è la società dello spettacolo, dell’apparenza, in cui ciò che è virtuale può diventare reale nell’immaginario collettivo (che poi è oggi il complesso e diversificato sistema delle comunicazioni), anche le immagini hanno una loro consistenza, un ben preciso peso specifico, e pertanto possono essere prelevate, modificate, rilanciate con nuova energia. In fondo non c’è quasi nulla di ciò che Cattelan realizza che non sia già preesistente: un asino vivo in galleria cita apertamente i cavalli di Kounellis, un asino impagliato in postura umana è prelevato dai Capricci di Goya, un altro sollevato dal peso del carro è addirittura preso da internet. Cattelan non fa nulla di suo, copia soltanto? Ma cosa aveva fatto Duchamp, se non aggiungere in qualche caso dei baffi e una sigla, in altri semplicemente spostare e ribaltare degli oggetti prodotti serialmente. E ciò vale per Cattelan anche quando utilizza i volti di celebri miti del Ventesimo Secolo: Papa Woityła, Hitler, John Fitzgerald Kennedy, volti stranoti che però vengono trasferiti dalla situazione in cui siamo soliti pensarli, collocati in un’altra, irritando la nostra abitudine visiva.
Che dire poi di quell’altro mondo immaginario che è dato dai cartoons. Anche qui l’artista non fa altro che spostare, sostituire ai topini umanizzati del mondo disneyano dei topi veri, magari proprio in un casa attrezzata dentro la parete, come quelli di Cenerentola, oppure allestire il suicidio di un povero scoiattolo in una micro cucina popolare, ironico melodramma casalingo in cui ironia e tragedia si bilanciano. E se il cartoon viene concretizzato per tornare alla consistenza animale originaria, non può mancare il reciproco, l’umano fumettizzato. E qui l’artista dà sfogo a tutte le possibili varianti dell’autoironia, collocando la sua caricatura nelle situazioni più strane e imprevedibili. Ma anche ad altri rappresentanti del mondo dell’arte tocca spesso la stessa sorte: mostri sacri come Picasso o Georgia O’Keeffe piombano dall’esistenza auratica della mitologia artistica nel goffo impaccio di caricature che si muovono nella realtà. Non è sempre lavorare sul già fatto rivitalizzandolo, sia esso il luogo comune, la barzelletta, o una qualche paura indefinibile che attraversa la nostra psiche? Non è un modo per sconfiggere la repressione, per far fuoriuscire le energie della libido che in un gesto gratuito, ironico, beffardo, possono trovare il loro sfogo?

E poi c’è il ready made papale papale, nemmeno un po’ “aiutato”, ossia senza alcun intervento di diversificazione dall’oggetto iniziale, che vale per la ricostruzione della scritta che campeggia su Hollywood, edificata su una discarica palermitana, ma anche per i tanti “furti” perpetrati ai danni di altri artisti, la cui opera viene rifatta tale e quale, senza nemmeno spostarla di contesto.
Ma in fondo, al di là dei dettagli e dei vari distinguo, cos’è in fondo il ready made, se non il riconoscimento che ciò che conta oggi non è la manualità, l’abilità nel realizzare qualcosa, ma la capacità di scelta, la decisione di isolare dall’immaginario che ci circonda qualcosa che assuma perciò valore. Argomento percepito allora, da Duchamp, che ridusse a tal punto lo sforzo fisico da pensare di nominare come ready made l’Empire State Building, ma ancora più centrale oggi, quando la quantità di informazioni che ci circonda rende quasi impossibile decidere con reale oculatezza quale scelta fare, ora che la possibilità non sta più solo tra il rosso e il nero ma tra migliaia di sfumature di differenti di colori. Cattelan non fa nulla, ma sceglie, tra quelle migliaia di sfumature. E non è poco.
Egli amplifica, porta al parossismo, la concezione, spesso vista ancora come socialmente negativa, dell’artista che non realizza oggetti con le proprie mani, ammettendo, quasi esasperando, la sua incapacità, la sua insufficienza a tutto. L’artista non è più oggi per il grande pubblico un genio in contatto con l’Assoluto, un uomo che possa insegnarci qualche verità, ma un bluffatore, un furfante, che ci inganna presentandoci lavori inconsistenti che non realizza nemmeno lui. E Cattelan, questo luogo comune, ce lo offre tale e quale, senza nemmeno correzioni. Offre al pubblico l’idea dell’artista che esso ha già.

È Maurizio Cattelan il vero ready made.

Anonimo ha detto...

...alla fin fine, siamo tutti "trasformatori" ...

Tutto ci è stato già dato bell'e fatto (ready made), dal momento che si inizia a parlare.
Si installa per così dire il software "linguaggio"

A noi la facoltà di combinare e trasformare le cose, non con le mani che vengono sempre dopo, ma con il linguaggio.

duchamp

Anonimo ha detto...

Come sono felice di leggere brevi scritti d'arte (anche se alcuni passaggi logici onestamente credo di non averli colti appieno).

Risse e sangue a parte, ho come la sensazione che questo "concettualismo", geniale da un punto di vista metodologico, per il nesso che crea fra teoretica e logica da una parte e estetica dall'altro, ponga dei problemi etici. Affermare che "... fare di sé un’opera d’arte, ha un senso solo se si distoglie l’attenzione dalla vita come senso e si inizia guardarla come uso del linguaggio" sottintende un giudizio di gusto nella scelta da parte dell'uomo-artista dei "... segni indicatori di eventi accaduti nel proprio sé" (rimanendo nell'ambito della razionalità e non entrando nella psicanalisi, ovviamante).

Stando a quanto letto, tale operazione critica (nel senso etimologico di 'scelta ponderata') pare non trovi fondamento nella morale soggettiva bensì nella mera correttezza logico-semantica del "segno" scelto. Quindi a mio avviso si crea un'aporia nella funzionalità dell'opera d'arte, nella misura in cui, mancando essa non solo di un paradigma formale (per definizione) ma anche di una finalità (o contenuto o messaggio) che non sia intrinseca all'intenzione di definire l'arte da parte dell'artista stesso, non è fruibile da terzi in quanto non è conoscibile (punto di vista gnoseologico, n.d.a.) nè, di conseguenza, giudicabile.

L'arte ha dunque perso dapprima il contenuto, poi la forma, resta solo il concetto..a questo punto rileggetevi il primo commento di Buel1.

Anonimo ha detto...

Insomma te le fai, te le dici, ti argomenti, ti smentisci... Fai tutto da solo... Bravo!

Sono ancora in disaccordo con l'ultima battuta, tuttavia.
"A noi la facoltà di combinare e trasformare le cose, non con le mani che vengono sempre dopo, ma con il linguaggio."
Ritengo che vista in questo modo si mettono tutte le diverse arti in un calderone unico. L'arte figurativa, al contrario, è diversa dall'arte letteraria. E' possibile paragonarle, ma ci vuole audacia e una profonda conoscenza di entrambe. Certo, quando si tratta di creazione derivano tutte dallo stesso denominatore comune: la genialità dell'artista. Poi sta all'artista scegliere come esprimere le sue "visioni", le sue ispirazioni; se con una scultura, con una poesia, con un quadro, con una canzone, etc. etc. a seconda del metodo da lui preferito o da ciò che la sua musa gli consiglia in quell'istante. Che io sappia (e siccome, ripeto, non so niente) c'è stato solo un artista che sia possibile definire globale, un genio in senso stretto. E' vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo, e si chiamava Leonardo. Gli altri si sono sempre limitati a uno, talvolta due, molto raramente tre tipi di arte. Anche Van Gogh ha scritto una sorta di autobiografia, ma non è stato sicuramente un successo come i suoi quadri. Sicuramente non durante la sua esistenza, dopo la sua morte solo di rimando (dire di possedere una lettera di Vincent originale non è come dire di avere attaccato alla parete un suo dipinto, ma è già qualcosa), e sicuramente a livello puramente artistico è sicuramente inferiore. Sarebbe come dire che Mozart si fosse messo anche a dipingere: seppur fenomenale nella creazione - e quindi ovviamente nell'ideazione mentale che la precede - di musica, dubito che un suo dipinto avrebbe avuto anche soltanto un quarto della perfezione che si riscontra nella sua musica. Nonostante molti dicano che la musica è l'arte primaria, quella su cui si basa tutto il resto. E d'altro canto anche il linguaggio, le parole sono musica.
Quindi, si agli artisti trasformatori, ma trasformatori da idee, concetti, intuizioni, ispirazioni, all'arte fisica e materiale.
Altrimenti tra qualche anno ci troveremo ad ammirare un muro bianco ascoltando una musica senza suono...

Anonimo ha detto...

NB: Ho scritto il post prima che Duchamp riportasse l'articolo di Cavallucci.. il che implica che forse qualcosa l'avevo capito.

Circa l'articolo penso che probabilmente come Schwarz avrei criticato anch'io Cattelan perchè, per dirla con il (nostro) Duchamp, ha semplicemente utilizzato il "software linguaggio" protetto da copyright del Duchamp (originale) non per vivere artisticamente, ma per creare delle opere di presunta arte. Dico "presunta" perchè oltre a forma e contenuto sono dunque prive anche dell'originalità del concetto che ne è matrice.

Anonimo ha detto...

Nico: sì rileggetevi tutti il primo commento di butel1, sì... e poi venitelo a spiegare anche a me, grazie.

Duchamp: non sono grande ammiratore del padovano Cattelan, ma lo tollero volentieri. Egli stesso non credo si definisca artista. Credo. Però è un esimio del marketing provocatorio e della comunicazione pseudo-artistica gridata.

B: "Nonostante molti dicano che la musica è l'arte primaria, quella su cui si basa tutto il resto. E d'altro canto anche il linguaggio, le parole sono musica".
Già, tra i sostenitori di tale tesi di "ascesi tramite la musica" (arte elementare che tutti comprendiamo) ci sono stati i grandi filosofi dell'area germanofona dall'Illuminismo/Aufklaerung in avanti.
Musica e fonia sì sono legate ma i suoni di una linga o fonemi restano solo e sempre puri significanti (acustici, fisici), successivamente associati arbitrariamente ad un significato per dare vita al "segno".
L'arte musicale, invece, non richiede per forza tale collaborazione significante+significato: la comprensione (sempre secondo alcuni dei dotti di cui sopra) sarebbe semplicemente immediata e disinteressata.
Ma la svolta è nel 900, molto prima di Warhol e del concettualismo, a mio avviso: arriva Heidegger e "il linguaggio è la casa dell'essere".

p.s.2: cazzo ho detto?

Anonimo ha detto...

butei/ele, se ci mettiamo a ragionare su cosa è arte cosa non è, ci troviamo davanti ad un baratro che porterà alla "regressio ad infinitum" come dicono i linguisti. dopodichè ci ritroveremo in mano che "l'arte è pensare all'arte stessa", cioè una forma di tautologia estetico/soggettiva.

la prossima volta posto qualcosa sul linguaggio, che chiarisce ciò che intendo con: "nulla è fuori dal linguaggio"

bon, domenica parto per amsterdam. ciao butei/ele...

Anonimo ha detto...

p.s
cazzo ho detto ?

solidale, solidale.

amo essere frainteso

p.s.
amsterdam ispira la creatività.

Anonimo ha detto...

Butel1, Duchamp: "ps: cazzo ho detto?"

Mi piace (da leggersi con tono vagamente ironico) tipico butel-atteggiamento: prima si appassione a discorsi metafisici e poi butta tutto in vacca per non essere preso sul serio, manco da se stesso.. tsk.

Bato chi va ad Amsterdam..

Anonimo ha detto...

Duchamp: "nulla è fuori dal linguaggio" ah beh qui posso già quotare tutto.
Intanto, buon viaggio ragazzo

Nico: cazzo hai detto? ;-)